“Penso dove non sono dunque sono dove non penso” ai tempi di Facebook

Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela

Nel pensiero di Jacques Lacan ( Parigi, 13 aprile 1901 – Parigi, 9 settembre 1981, psichiatra, psicoanalisti, filosofo) l’Io cosciente è costituito per tessitura dall’inconscio, è un’immagine di se stessi che si manifesta come risultato del dialogo criptico emesso dall’Altro. La sede dell’essere si scinde quindi dal luogo in cui esso si origina: si pensa dove non si è, dunque si è dove non si pensa.

Tralasciando un’analisi dettagliata di questa teoria e delle critiche che le sono state mosse è interessante guardare come potrebbe essere estesa al mondo odierno delle reti sociali (Facebook, Twitter, Google+, Tumblr, Flickr e chi più ne ha più ne metta), dove l’immagine dell’essere che si vuole presentare è costruita meccanicamente e sistematicamente, dove inconsapevolmente si vengono a formare rappresentazioni degli individui che trascendono l’Io e si strutturano invece come deformazioni alienate dai desideri: il “desiderio che diviene linguaggio” di Lacan ora travalica la realtà e diviene l’idealizzazione inconscia dell’Io.

Allo stesso tempo la “Spaltung” (dal tedesco spalte: spaccatura) è inevitabile poiché la relazione immediata tra conscio ed inconscio viene distrutta nel momento in cui il soggetto identifica se stesso nell’immagine che costruisce di sé: sono quello che descrivo, sono questo insieme di informazioni, di simboli, sono qualcosa. “Io” sono “qualcos’altro”, o meglio, per poter parlare di questo qualcosa devo renderlo esterno, scinderlo dalla mia essenza.

È quindi l’atto stesso del parlare di se stessi che risulta improrogabilmente macchiato di falsità, nel senso che il termine assume nella logica proposizionale. Traslando questa impostazione nel contesto delle reti sociali elettroniche è evidente come esse non possano apparire niente altro che enormi castelli di carta, un’insieme di informazioni necessariamente fittizie che hanno il solo risultato di estraniare i soggetti, divenuti utenti, da loro stessi.

Si faccia poi bene attenzione che questo ragionamento non è obbligatoriamente veicolato da una partecipazione attiva: anche arrivando ad escludersi del tutto si sta decidendo di descrivere se stessi, in un certo qual modo. Si sta comunque,  relativamente ai social network, modellando una forma estranea e connotata di falsità, dovesse anche essere solo equivalente a quella di uno pseudo eremita digitale.
L’esistenza stessa di queste vetrine elettroniche per persone si impadronisce di un ruolo attivo nei confronti di chiunque ne venga a conoscenza.

Quindi l’immagine che mostriamo di noi stessi altro non è se non un Io che «per la sua funziona puramente difensiva e quindi narcisista, non è che il soggetto immaginario, cioè l’assoggettato senza vera autonomia o libertà da conflitti o da misconoscimenti alienanti» (M. Francioni). E questo funzione narcisistica e difensiva viene spinta al punto che «l’Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo» (Lacan, Les écrits techniques de Freud).

Ma se avviene la scissione tra conscio ed inconscio, se la frattura tra significante e significato porta ad uno stato di alienazione sintomatica è necessario non dimenticare che questi sintomi sono, alla radice, manifestazioni dell’inconscio. Anzi, «formazioni dell’inconscio». Se lette nella chiave giusta possono portare ad una parziale conoscenza che trascende le intenzioni dei soggetti. In altre parole una lettura psicoanalitica può portare a ricostruire i frammenti di verità emessi dall’inconscio all’interno dell’immagine assemblata dell’Io, i meccanismi posti a difesa possono rivelarsi la chiave di volta grazie alla quale si può, parzialmente, conoscere l’inconscio.

L’alter ego virtuale potrebbe, in una certa misura e per chi è in grado di leggere, mostrarvi come un libro aperto e quindi quello che in modo più o meno apparente è iniziato come un «trastullo del proprio pensiero» potrebbe rivelarsi una lastra di vetro.
Il discorso che abbiamo pubblicamente intrapreso su noi stressi potrebbe, ora nostro malgrado, parlare veramente di noi.

1 thoughts on ““Penso dove non sono dunque sono dove non penso” ai tempi di Facebook

  1. L’applicazione “dove sei?” più che toponomastica del nome proprio, è implicazione d’uso del nome. In luogo dell’essere c’è l’essere stato. Il nome proprio è stato in quanto i nomi comuni avranno detto – “penso che tu, nome proprio, abbia provato piacere … lo adduciamo da ciò che hai postato”.

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